È stato segretario generale della Cgil Abruzzo per otto anni, dal 1999 al 2007 e in precedenza ha anche ricoperto l’incarico di segretario generale aggiunto con Gianni Melilla e segretario dello Spi, il sindacato dei pensionati italiani. Da sei anni non svolge nessun ruolo sindacale attivo, ma osserva in maniera molto dettagliata tutto ciò che accade in Abruzzo sul fronte del mondo del lavoro e l’andamento della sua città Pescara. Parliamo di Franco Leone, 66 anni, che mostra ancora tutta la sua combattività quando si affrontano le tematiche riguardanti l’economia e i problemi legati alla crisi industriale della nostra regione e di reddito delle famiglie. Con lui, che oggi si occupa di agricoltura biologica e orti sociali, abbiamo scattato un’istantanea del presente e sfogliato un’album dei ricordi. Il suo quartiere è sempre stato quello di Porta Nuova e anche oggi vive ancora in zona pineta. Lei ha smesso ogni incarico sindacale a sessanta anni, oggi a quella età si è considerati ancora giovani. «È uno dei miei crucci: ai miei tempi il segretario provinciale era un quarantenne, poi si entrava a livello regionale. Oggi i tempi si sono dilatati e con il passare dell’età entra in gioco un meccanismo che porta alla conservazione e questo ritengo sia un male. Bisogna dare spazio ai giovani». Rispetto ai suoi tempi è cambiato anche il mondo del lavoro. «Sì, è vero. Nel mio sindacato era forte l’idea della rappresentanza. Oggi i rapporti sono cambiati in modo radicale. Ritengo che non sia più sufficiente guardare solo al lavoro dipendente, ma alla condizione stessa del lavoro. Mi riferisco alle partite Iva, dei contratti a termine e a progetto. Bisogna guardare a questo mondo ma non si può fare essendo legati alla logica della contrattazione. Lo scenario si è profondamente modificato». Come si è avvicinato al mondo del sindacalismo? «Stavo cercando di conseguire la laurea in Biologia, che poi arrivò, e nel frattempo trasportavo giornali perché mio zio aveva un’agenzia di distribuzione. Poi andai a lavorare come ispettore al “Mezzogiorno”, un quotidiano che nacque in quegli anni. Ma io ero appassionato del mondo sindacale, e mentre stavo facendo il militare, nel 1974, mi proposero di lavorare nel sindacato, nel quale il più forte era quello degli edili». Come ricorda il periodo passato come segretario generale? «Fu un esperienza del tutto particolare. Nel 1999 l’Abruzzo usciva dagli interventi comunitari e avrebbe dovuto iniziare a muoversi con le sue gambe. La mia prima frase fu: “Dobbiamo stare attenti a questa uscita”. Il problema era che eravamo bravissimi a reperire queste risorse, ma era una capacità esterna alla pubblica amministrazione. L’allarme che lanciai era per il fatto che non si riusciva a spendere quei fondi e rischiavamo di bloccare tutto il meccanismo. A distanza di tempo è quello che è accaduto. All’inizio del 2000 la fondazione Ambrosetti-Siemens disse che la nostra regione aveva bisogno di una profonda riforma della pubblica amministrazione e di interventi infrastrutturali, visto che c’era incapacità a mandare avanti queste cose. Insieme a queste due, l’altra debolezza era rappresentata dalla formazione del lavoro, insieme hanno messo in crisi l’Abruzzo». In quel periodo la Cgil organizzò anche uno sciopero generale solitario. «Sì, dal 2001 al 2004 entrammo in una spirale recessiva. Per questo io chiedevo al governatore Giovanni Pace di indirizzare le risorse regionali a sostegno dello sviluppo e di ridurre la spesa sanitaria, che poi si è dimostrata eccessiva. Bankitalia parlava di paradosso abruzzese perché non riuscivamo a spendere soldi e ad avere sviluppo e il nostro Pil inferiore agli altri. Organizzammo così uno sciopero da soli come Cgil che ebbe grande successo tra i lavoratori. Portammo in piazza a Pescara ventimila persone e venne a fare il comizio l’allora segretario nazionale Guglielmo Epifani. Quello sciopero non ricevette applausi dagli ambienti del centro sinistra, mentre a destra ci definirono tour operator della disgrazia». Poi però la storia vi ha dato ragione. «Nel 2005/2006 coloro che definirono scandaloso lo sciopero si ritrovarono a parlare della crisi. Anche il presidente Ottaviano Del Turco era tra questi». Come vede oggi la nostra regione? «Vedo male l’Abruzzo. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso peso nell’industria e continuiamo a perderlo. La piccola impresa, che ha anche una funzione come paracadute sociale, dato che molti di quelli che hanno perso il lavoro si sono rifugiati in queste realtà, non regge vista l’altissima mortalità. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso quasi il 12 per cento e il nostro tasso di sviluppo è inferiore a quello nazionale». Di chi sono le colpe? «Sostengo, che se possiamo imputare una colpa alla classe politica è quella di fare finta di niente visto che si sono persi anche i centri del pensiero, però parlare della politica sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Tutti i più grandi gruppi italiani avevano in Abruzzo centri del pensiero tecnico e scientifico che ora non stanno più sul territorio. Di conseguenza perdiamo, oltre alla ricchezza concreta, anche i cervelli». L’errore più grave secondo lei qual è stato? «Il vulnus più grave è stato non aver avuto il coraggio di intervenire in maniera radicale sugli interventi nel settore della sanità. Nel 2005/06 polemizzai con Del Turco perché se prima c’erano 200 milioni di euro di deficit in un anno lui fece il doppio. Il risultato è stato il risanamento fatto con i sacrifici degli abruzzesi. Invece sarebbe servito un ridimensionamento della spesa, con soldi spesi per tecnologie più moderne ovvero spendere soldi per una sanità più forte. In passato eravamo la locomotiva del Mezzogiorno, oggi siamo diventati la quart’ultima regione a livello italiano». Lei è sempre fatto sindacato, è stato mai attirato dalla politica? «Quando venne arrestato Del Turco polemizzai in modo forte con la dirigenza dei Ds e mi chiusi a riccio. In quel periodo accettai di dare una mano all’Italia dei Valori di Di Pietro e mi candidai come indipendente alle Regionali. Ma i politici parlano del contorno e non del merito delle questioni e poi alle elezioni funzionano le clientele». Che rapporti ha avuto con la politica da segretario generale? «I rapporti non erano idilliaci, con Del Turco anzi erano tesi. Gli dissi che non si potevano portare gli ospedaletti a casa. Io partivo dal presupposto che ognuno doveva giocare il suo ruolo. Io ho cercato di esprimere gli interessi del mondo del lavoro. Contro la giunta Del Turco organizzammo uno sciopero con Cisl e Uil sei mesi dopo l’insediamento. Con Pace invece i rapporti erano di cortesia ma il suo limite era che non aveva una giunta, ogni assessore operava in modo autonomo e per questo non è riuscito a fare una legge di programmazione settoriale». La più grande soddisfazione? «L’accordo fatto alla Micron per le cosiddette dodici ore. Fu la prima contrattazione con gli americani». La delusione? «Ho sempre solo preso atto delle sconfitte, fanno parte della democrazia». E come vede la sua Pescara? «Sono allibito per come la classe politica sia stata e sia inerme riguardo alla questione porto e dragaggio».
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